Il pensiero di Anna Paola Bosi su "Mistero buffo"

Una serata buffa e misteriosa con Ugo Dighero

Visto il 17/01/2018 | Auditorium Le Fornaci, Terranuova Bracciolini (AR)

Quando non sopporti di festeggiare il compleanno, di solito ti inventi impegni improrogabili e ti eclissi. Questo era il mio intento l’altra sera: mescolarmi nella folla anonima per assistere a uno spettacolo visto da adolescente alla televisione in bianco e nero (sì, è drammatico, ho tutti questi anni). Avevo 14 anni circa e alla RAI c’era Mistero Buffo. Mi misi a guardarlo. Ero del tutto impreparata, non capivo quasi nulla ma, seppure indignata, non riuscivo a staccare lo sguardo da quello strano essere che gesticolava in modo esagerato, si muoveva a scatti e pronunciava frasi come se facesse apposta a non farsi capire. Con questo spirito sono andata all’Auditorium Le Fornaci di Terranuova il 17 gennaio, insieme agli Spettatori Erranti. E poi mi ritrovo lì, con i compagni di questo errare, prima dello spettacolo. Con Ugo Dighero, l’attore, a un metro da me, lui e la sua mezza paresi al volto causata da una sindrome improbabile, che ci racconta come fossimo in salotto la sua storia di attore appassionato di Dario Fo, di quando un giorno decide di trascrivere a orecchio Mistero Buffo, così come lui stesso lo ascolta e vede su un VHS (un VHS: siamo della stessa epoca).

Si entra in sintonia, fra pubblico e attore. Con la scanzonatura credibile di chi sa cosa dice e come lo dice, Dighero introduce i due pezzi: ha sia il dono dell’ironia che della sintesi ed è un bene perché i comici prolissi generalmente annoiano. Sarà la breve spiegazione, la mia inevitabile maturità, l’essere “in” teatro o la sua interpretazione moderna dei testi di Dario Fo, ma questa volta capisco il senso di Il primo miracolo di Gesù bambino e di La parpàja topola e rido, mi diverto, rifletto, mi commuovo, mi stupisco, ammiro, un po’ anche ammutolisco.

A questo proposito, vorrei dire due parole sul corpo in scena: la performance è un’ora e mezza di continui cambi di toni, accenti, pronunce, balzi, gesti fisici, mimiche facciali, personaggi che narrano storie ambientate in luoghi virtuali, realizzati solo grazie a voce e movimenti (io poi, che sono empatica, ci aggiungo l’integrazione dell’emiparesi al resto, in equilibrio fra approccio ironico e scientifico). Il tutto realizzato da un semplice essere umano in maglietta e pantaloni consunti, dotato di un’anima e un corpo sintonizzati tra loro e in connessione con il terzo personaggio, come dice lui: il pubblico. Si dice che i genovesi amino il risparmio: per le spese dei costumi e la scenografia usati in questo spettacolo è sicuramente vero, ma è un vero che ti consola della vacuità dell’oggi, così piena e ricca di oggetti tanto inutili quanto costosi. Ben venga la tircheria, se ci dona un vuoto di scena riempito da immaginazione, passione per il teatro e comunicazione.

Una serata buffa e misteriosa, quella di un compleanno che volevo ignorare. In un’atmosfera da ricevimento intimo, ricevo auguri pacati per niente imbarazzanti e un regalo davvero inaspettato (per fortuna nulla di convenzionale come un mazzo di fiori perché odio le smancerie): Dighero alla fine interpreta una poesia dissacrante scritta da lui stesso durante la guerra in Iraq. Non lo so, sarà che parla della democrazia come di una merce da esportare (“non la tua, la mia!”) o saranno le imminenti elezioni politiche avvolte in una nebbia degna del Valdarno, comunque l’ho trovata di un’agghiacciante attualità. Proprio un regalo di quelli che piacciono a me.