Il pensiero di Sara Nocciolini su "Macbettu"

Visto il 06/10/2018 | Teatro Peatrarca (Festival dello Spettatore), Arezzo

I motivi per cui andiamo a teatro sono tanti e sono tra i più disparati: si può andare per curiosità o per abitudine;per il piacere di vivere un certo tipo di esperienza o per rispondere ad una necessità più profonda; per godere di storie che prendono vita o per trovare prospettive, angolazioni, punti di vista sulla realtà diversi dai nostri. Ai motivi si legano le aspettative: ci aspettiamo che quello che vediamo in scena ci parli, ci racconti qualcosa in cui possiamo riconoscerci o da cui prendiamo le distanze, perché non lo sentiamo affine al nostro essere o non rappresenta il nostro modo di fare; chiediamo al mondo del teatro di essere attuale, di saper portare sulla scena temi, questioni e problematiche dei nostri giorni, di mostrare uno spaccato del tempo in cui viviamo che non riusciamo a trovare in altri contesti o in altre forme; ci aspettiamo,soprattutto, che ci smuova qualcosa dentro, che tocchi una o più corde nella scala delle nostre emozioni, che non ci lasci indifferenti. Lo spettatore vuole qualcosa indietro, o meglio, in cambio del suo tempo, della sua attenzione, della sua fiducia e della sua disponibilità a far parte di un’azione collettiva. Una delle conquiste della contemporaneità che viviamo è l’aver annullato le distanze spazio-temporali, poiché non percepiamo più i luoghi come così lontani o difficili da raggiungere, e la frenesia che fa muovere le nostre giornate spesso altera la percezione che abbiamo dello scorrere del tempo. A teatro invece, così come per qualunque altra esperienza artistica, non è così, vige ancora il qui ed ora. Uno spettacolo, che sia teatrale o musicale, che sia un film o una mostra, ha uno spazio deputato e avviene durante un tempo preciso che prevede un inizio, uno svolgimento ed una fine. Ogni performance è un’esperienza, unica e mai uguale a se stessa, ma condivisa tra artista e pubblico, tra spettatore e spettatore.

Ripercorrendo gli spettacoli delle tre edizioni del Festival dello Spettatore,uno in particolare spicca per la sua capacità di racchiudere tutti questi aspetti, e il suo ricordo riesce ancora, a distanza di tempo, a sprigionare una forte potenza sia espressiva che di contenuti. Macbettu di Alessandro Serra è infatti uno spettacolo che smuove qualcosa dentro, che difficilmente lascia indifferente lo spettatore, che sia sul piano dei sensi o della riflessione, che tocchi le corde delle emozioni o delle pulsioni, è un urlo che risuona a lungo anche quando sulla scena cala il sipario. È uno spettacolo che indubbiamente si presta a far discutere per il suo stesso genere, un libero adattamento del Macbeth di Shakespeare riscritto interamente in lingua sarda, un lavoro che sposta la storia di uno dei personaggi più noti del grande drammaturgo inglese (considerato dai più l’intoccabile) in Sardegna, in un’ambientazione senza tempo, ma con i tratti e le tradizioni dell’isola ben definiti. Di Macbettu hanno scritto molto critici e giornalisti, come è avvenuto per tanti altri lavori che poi hanno avuto successo e riconoscimenti, è stato stroncato da alcuni per essere successivamente elogiato da altri; ma ne hanno parlato molto anche gli spettatori, generando quel passaparola che spesso arriva fino a chi programma le stagioni teatrali.

Di questo lavoro ha parlato Stefano Romagnoli, lo Spettatore Professionista che ha fatto della sua passione per il teatro un impegno costante, professionale e attentamente critico, che lo ha raccontato perché la forza e il coraggio di questa innovazione drammaturgica potesse raggiungere altri spettatori e organizzatori.E così le parole di Stefano Romagnoli hanno destato la curiosità, tra i tanti, degli Spettatori Erranti di Arezzo, il gruppo che si muove per i teatri della provincia e che ha scelto proprio Macbettu per un fuori programma, ovvero una delle attività collaterali che ad ogni stagione arricchiscono il progetto. La prima volta che una parte degli Spettatori Erranti ha visto lo spettacolo di Serra è stata a Firenze al Teatro Cantiere Florida, dove c’è un’altra realtà che si muove per la formazione e la partecipazione attiva del pubblico, una comunità che dice la sua sugli spettacoli ed uno spazio teatrale che di questi elementi ha fatto alcuni dei suoi punti di forza. Un ottimo luogo, quindi, per l’incontro, per la curiosità della scoperta e per il confronto. Successivamente Macbettu è stato scelto per comporre il programma della terza edizione del Festival dello Spettatore e chi, degli Spettatori Erranti, lo aveva già visto si è sentito ambasciatore di qualcosa di bello che doveva arrivare ad altre persone, come un testimonial che dovesse incuriosire altri spettatori affinché quell’esperienza potesse essere di nuovo condivisa in un altro spazio, in un altro contesto, ma pur sempre condivisa.Perché se il bello arriva ed arricchisce altre persone fa ancora più piacere, è come fare un regalo; non solo, se si riconosce ad un lavoro artistico un alto valore non soltanto culturale ma anche sociale, allora condividerlo e farlo conoscere diventa doveroso, è un impegno verso gli altri.

Perché Macbettu deve essere condiviso, deve raggiungere più persone possibili? Perché è uno spettacolo che scuote le coscienze, perché mostrando in scena i lati oscuri dell’animo umano ce li fa sentire quanto mai attuali e ci mette in guardia da essi. Certamente di Shakespeare è il merito di aver saputo scandagliare l’animo umano e di essere riuscito a rappresentarlo, raccontarlo, svelarlo attraverso le sue opere senza tempo; ma ad Alessandro Serra va il merito di aver saputo cogliere l’attualità del testo shakespeariano rapportandola con il presente che viviamo, un’attualità che va oltre le vicende di Macbeth, del re di Scozia Duncan e del Barone Macduff, e di averla fatta parlare al pubblico di oggi, di averla resa significativa. Non importa se di quel medioevo in Scozia resta ben poco, il lavoro di Serra è capace di mantenere inalterato il peso di gesti quali l’assassinio per quel delirio di potere che genera poi altre morti e porta alla tragedia; la riscrittura di Serra avvolge lo spettatore nel buio dei tormenti di Macbettu, quando viene abbandonato dalla ragione e perde il sonno, e lo trascina in una crescente tensione; la potenza di scene quale quella della cena dei maiali, bestie umane che irrompono a testa bassa bramosi di vino, fa emergere caratteri che segnano ancora il nostro tempo, come la perdita di controllo, l’istigazione, la bruta avidità. Al centro della scena, imponenti come il monolite che definisce e fa cambiare la scenografia, ci sono quelle pulsioni dell’animo umano che dall’opera di Shakespeare passano attraverso il lavoro di Serra e dei suoi attori per raggiungere gli spettatori, e tra questi ognuno le interpreta a seconda del proprio immaginario, le sente più o meno vicine, le allontana o se ne mette in guardia, ma in ogni caso le riconosce.

È noto che un’opera è veramente immortale quando ha la capacità di parlare al pubblico – che siano spettatori o lettori – oltre i secoli, al di là delle circostanze contingenti, divenendo così un classico; che Shakespeare ne sia uno dei massimi esempi è indiscutibile. Alessandro Serra non sviluppa soltanto un dialogo profondo con l’opera shakespeariana, aggiunge un elemento in più rintracciando le immagini, i volti, i suoni del racconto nella realtà che lo circonda durante una delle sue esperienze artistiche. È lo stesso Serra infatti a svelare che il suo “Macbettu nasce nel febbraio 2006, nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Sardegna”, dove scopre “sorprendenti analogie tra Sardegna e Scozia, e tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere sarde”[1]. Serra vede i volti di Macbeth e Banquo in quelli dei bambini che fotografa, scorge le scene della tragedia tra gli eventi e i riti del carnevale, rimane colpito dai campanacci, dagli abiti, dalle maschere che contraddistinguono quel preciso contesto carnevalesco e li trasporta nel suo spettacolo come oggetti di scena. Ma non si tratta soltanto di oggetti che compongo la scenografia, ogni cosa ha anche un valore fortemente simbolico e insieme evocativo, ogni cosa si fa strumento drammaturgico che lascia un segno laddove la narrazione scenica procede per sottrazione, ogni cosa è capace di evocare un luogo, la Sardegna appunto, ma anche di fissare una scena o un atto della storia nello spazio in cui si sviluppa l’azione.

Prendiamo ad esempio le pietre che vengono portate in scena, spostate e fatte rotolare, che sono il simbolo di una terra aspra e rocciosa, ma sono anche i duri cuscini su cui cadono le teste delle guardie con sembianze di maiali dopo essersi ubriacati; sono le stesse pietre con cui viene fracassato il cranio di Banquo,e le stesse che segnano la scena innalzando cumuli, pietra su pietra, assassinio dopo assassinio, pietra dopo morte. Altro elemento ancora più caratteristico è il pane carasau, il pane della tradizione sarda, che non è solo il cibo dei nobili presenti al banchetto di Macbettu, ma è soprattutto la base su cui cammina lo spettro di Banquo, che si sbriciola scricchiolando mentre viene calpestata, ad evocare la terra che si frantuma di fronte agli occhi di Macbettu producendo un suono stridente,che ricorda quello delle ossa rotte e che non lascia presagire nulla di buono. In questo scenario in cui natura e tradizioni dominano, il legno simbolo della Sardegna si anima divenendo il grande bosco di Birnam che avanza contro Macbettu, con la forma di grandi maschere di corteccia di sughero che coprono il volto dei soldati che lo accerchiano quando ormai è in gabbia. La natura è inoltre presente con i suoi due elementi dell’acqua e della terra. L’acqua non viene solo versata, viene anche evocata per mezzo di un’antica macchina della pioggia che simboleggia il feretro di Duncan e che, durante il funerale, emette un suono cupo di acqua scrosciante; la terra è quella secca di un territorio aspro che appare come sconfinato, perché in scena c’è sempre polvere, tanta polvere che viene alzata e che avvolge i corpi, si posa sugli abiti, sbianca le scarpe e ricopre gli oggetti. Anche la morte è polverosa, come afferma Macbettu nel suo monologo quando parla della morte della Regina e, sentendo la sua ormai vicina, cerca di darsi forza e coraggio.

Tutto il lavoro di Alessandro Serra è marcato da elementi e oggetti portatori di significato ed evocatori di immagini – potremmo citare ancora la cenere, il ferro della scenografia, i campanacci – e questo fa sì che l’opera sia al tempo stesso quanto mai concreta e ricca di simbologia, in un equilibrio costante tra questi due aspetti. I livelli su cui si sviluppa Macbettu sono diversi, poiché lo si può leggere sul piano della riscrittura in lingua sarda e dell’ambientazione tipica di questa regione, così come lo si può analizzare dal punto di vista della simbologia, o lo si può seguire nel suo dialogo/confronto con il testo shakespeariano. Oppure ci si può perdere tra le immagini che la scena riesce ad evocare, o ci si può lasciar catturare, scuotere, in certi casi anche sobbalzare per i suoni che punteggiano la partitura sonora del Macbettu e che rappresentano una lingua a sé. Il suono cupo e crescente del monolite di ferro segna l’inizio dello spettacolo e insieme scuote lo spettatore, come ad avvertirlo che qualcosa di importante, di grave sta per succedere, ed è lo stesso suono che, scandito da colpi,chiude la scena finale quando tutto si è ormai concluso, come a imprimere la propria parola sulla fine del racconto. Questi livelli sono tenuti insieme dalla coerenza interna che percorre tutto il lavoro di Serra e che permette allo spettatore di non perdersi, di riuscire a seguire le vicende anche quando le parole dei dialoghi non sono comprensibili, o anche se non si conosce oppure non si ricorda la storia di Macbeth, prima Barone di Glamis, poi di Cawdor, poi Re di Scozia. Serra ripropone con la sua riscrittura del testo l’essenza stessa del teatro shakesperiano, ovvero la capacità di vedere e poi di rappresentare la parte più intima e profonda dell’animo umano, con i tormenti che lo abitano, le bramosie, i desideri, la perdita di lucidità o di coscienza.

L’animo umano può essere buio, può avere cavità e risvolti poco piacevoli, ed anche la messa in scena di Alessandro Serra lascia intravedere poca luce. Macbettu chiede alle stelle di nascondere la luce affinché “non vengano mostrati i suoi oscuri e segreti desideri che l’occhio teme di vedere”[2] e così Lady Macbettu, nell’invocare la notte oscura e gli spiriti di morte, gli copre gli occhi con la mano; dopo l’assassinio di Banquo è invece la notte che deve sigillare le pupille degli occhi di Macbettu e fasciare l’occhio pietoso del giorno. Non ci sono colori in scena se non il bianco e il nero dei vestiti, il grigio delle pietre e degli oggetti, il rosso del sangue. Ci sono i suoni, forti, stridenti e disturbanti, e c’è l’urlo “Macbettu” che con la sua potenza arriva fino all’ultima fila del pubblico e risuona a lungo nelle orecchie, nella testa dello spettatore.In uno scenario che non lascia intravedere speranza, a fine spettacolo c’è bisogno di ritrovare sicurezza e di ricordarsi che l’animo umano ha anche altre pulsioni, altri desideri e sane ambizioni. È in questo momento che si ha maggiormente bisogno di trovare lo sguardo degli spettatori con cui abbiamo percorso questo duro viaggio nel profondo, quasi a cercare un appoggio o un gesto di conforto. Non tutte le riflessioni sono necessariamente un atto personale, molte acquisiscono valore se vengono condivise, se diventano un momento pubblico. Il groviglio di emozioni può allentarsi se il fatto di ritrovarle in altre persone nello stesso momento ce le fa comprendere meglio o, più semplicemente, ce le fa sentire meno complesse da decifrare. Quando un’esperienza, in questo caso artistica, smuove qualcosa dentro di noi non è facile tenere a freno l’impeto delle impressioni, dei pensieri che vogliono uscire, e nella maggior parte dei casi si ha voglia di discuterne con chi sentiamo a noi vicino, affine. Così dal dialogo di un regista con l’opera di un grande drammaturgo nasce un nuovo dialogo, quello di uno spettatore con il suo vicino di posto o con un potenziale spettatore a cui si consiglia lo spettacolo, in un ripetuto confronto che tiene viva sia l’opera che la riflessione in chi può goderne.

[1] AA.VV., Macbettu di Alessandro Serra, tratto dal Macbeth di William Shakespeare, Nuoro, Ilisso Edizioni e Sardegna Teatro, 2017, collana PaginediScena, p. 7.

[2] Ivi, p. 33.


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