Festival dello Spettatore 2018 – Diario di bordo


Festival dello Spettatore 2018 – Diario di bordo

di Martina Colucci

Venerdì 28 Settembre 2018

Manca una settimana ed io sto pensando al Festival, al bagaglio, al Festival, ai vestiti, al Festival, all’hotel, al Festival, al viaggio ma soprattutto al Festival (non l’avevo ancora detto, vero!?)

Da nove anni lavoro a stretto contatto con il pubblico e da nove anni è un legame che diventa sempre più forte. Grazie al pubblico ho imparato a stare, ad avere modo, a capire e anche ad ascoltare pareri diversi, conoscere meglio storie, trame di spettacoli, a capirci qualcosa di più quando uscivo dalla sala con alcuni dubbi e osservare punti di vista nuovi, e spesso ho potuto ascoltare la musica da punti di vista nuovi.

A volte, però, il pubblico, non è sempre facile: alcuni pensano che pagare un biglietto dia loro il potere di fare ciò che si vuole, adottare un comportamento poco consono al luogo teatrale e con poco rispetto per lavoratori ed artisti. Ma i casi sono arginabili, con pazienza e tempo. 
Vero anche che, le realtà teatrali dovrebbero far passare un messaggio diverso, lavorare per far sì che l’esperienza teatrale e dal vivo sia vissuta con la leggerezza giusta, ma che non sia superficialità, che i temi trattati in scena siano più chiari possibile cercando un contatto con lo spettatore. 

Questa cosa sta già avvenendo da qualche tempo: recenti sono alcune esperienze teatrali e di arte performativa che hanno al centro lo spettatore a cui viene data la possibilità e responsabilità di azione, coinvolgimento ed interazione con gli artisti, per poter vivere appieno l’esperienza e portarla a casa.

Un luogo di incontro, di accoglienza e confronto dove sentirsi bene ed emozionarsi. Credo che debba essere questo il teatro. E mentre sono a lavoro, tra un programma da vendere e indicazioni da dare, penso a venerdì prossimo, al buio della città, alla luce del palcoscenico e alla curiosità degli spettatori che saranno presenti. Manca poco, ma con la testa sono già lì. 

Martedì 2 Ottobre 2018

È solo martedì, ma la testa è già a venerdì, giorno di partenza, destinazione Arezzo, Festival dello Spettatore.
Si comincia domani, 3 ottobre, fino a domenica 7.

Le attese sono molte e non posso fare a meno di chiedermi ed analizzare, dal mio punto di vista, la figura dello spettatore.

Stando a quanto vedo, credo che l’interesse per il mondo teatrale ci sia, come l’esigenza di recarsi a teatro, di sentirsi raccontare questi tempi, sperare che non siano così bui come a volte i mezzi di comunicazione ci fanno vedere o così fintamente frivoli e superficiali come a volte l’universo social ci fa credere.

Vedo un pubblico eterogeneo, dagli adolescenti agli adulti, vedo cogliere sfumature profonde nelle trame e drammaturgie messe in scena.

Vedo la voglia di confronto, il bisogno di parlare delle persone, la ricerca dello scambio. 

Venerdì 5 ottobre

Arrivo al pomeriggio. La strada dalla stazione al Teatro Pietro Aretino è particolarmente breve e suggestiva. Cammino, con la fretta di chi non vede l’ora di iniziare, e di arrivare.

Ad accogliermi c’è Chiara, assieme a Simone Pacini, uno dei “guru” della comunicazione nel mondo dello spettacolo, che presenta il suo libro, Il teatro sulla via Francigena, un’esperienza di cammino vero e proprio tra la parte toscana della Via Francigena e la regione francese del Lot-et-Garonne e un diario di bordo che racconta la creazione “passo passo” di uno spettacolo nato dalla collaborazione tra il Teatro Metastasio di Prato e École d’Aquitaine. Alla scrittura ha collaborato anche Sara Bonci, giornalista, ufficio stampa del Collettivo Sosta Palmizi e tra i fondatori della compagnia Cantiere Artaud, senza la quale non sarei qui a scrivere e documentare questo evento.

Parliamo quindi di un progetto dedicato agli spettatori, in questo caso anche internazionale: e non si può fare a meno che pensare alla connessione col territorio, alla rete di legami e relazioni che il teatro crea, tema centrale del Festival dello Spettatore: una rassegna dedicata al pubblico – dai più giovani ai più adulti- per riflettere sulla figura di chi, accomodato sulla poltrona di un teatro, assiste ad uno spettacolo.

Ma, visto che siamo in tema, faccio un passo indietro: nell’attesa dell’arrivo del pubblico, con Simone scambiamo due chiacchiere tra cui anche una riflessione breve e alquanto superflua sul tempo: lui sente freddo, io sto morendo di caldo. Lui arriva da Roma, io dalla nebbiosa Milano: siamo nella stessa città, nello stesso posto, eppure la temperatura percepita è differente. Uso questo episodio perché si adegua perfettamente alla situazione in cui due spettatori vedono lo stesso spettacolo ed escono con percezioni diverse: in teatro, come in ogni opera culturale, non esiste un giusto, uno sbagliato, ma esistono opinioni e considerazioni.

E noi siamo qui per dircelo, ricordarcelo, senza giudizio. Dopo l’intervento di Simone, si affronta un dibattito interessante e coinvolgente a cui partecipano con le loro esperienze e bagaglio culturale alcuni importanti esponenti, studiosi, danzatori del panorama nazionale quali Rossella Battisti, Alessandro Pontremoli, Gerarda Ventura, Raffaella Giordano e Giorgio Rossi. Si parla di danza contemporanea e il pubblico. Alcune performance di danza contemporanea a volte non arrivano subito allo spettatore che spesso non riesce a decifrare i messaggi e contenuti che vengono rappresentati. In fondo viviamo anche un tempo in cui i messaggi sono istantanei, in cui la lettura comprende sempre meno contenuti o sottotesti da “decifrare”, dove l’apparenza è più forte della sostanza, che ha bisogno di tempo per emergere. Un po’ come quando si corre per andare a lavoro senza guardare contro chi inciampiamo, in teatro e nell’arte in generale, non è sempre possibile percepire immediatamente un messaggio. I connotati, i contenuti che caratterizzano una produzione da un’altra hanno necessità di essere percepiti col tempo; di essere più chiari possibili sicuramente attraverso lo studio delle simbologie e iconografie, ma è fondamentale pulire lo sguardo.

L’incontro si rivela coinvolgente ed interessante: dagli interventi dei relatori, arrivano alcuni consigli importanti per lo spettatore che va a vedere una performance di teatro danza, primo tra tutti proprio “pulire lo sguardo”, cercando di arrivare a sedersi a teatro senza avere alcuna idea/pre concetto rispetto a quello che accadrà in scena per poter assorbire meglio tutti i contenuti che vengono trasmessi. Si invita il pubblico ad andare a vedere più produzioni possibili, per ampliare il proprio sguardo sul mondo.

Da uno studio medico scientifico (si, medicina e arte camminano a braccetto il più delle volte!), si è dedotto attraverso la risonanza magnetica funzionale che la danza classica abbia un codice riconoscibile e che attivi il ciclo delle dipendenze, cioè faccia sentire bene chi la guarda a differenza della danza contemporanea. Danza e coreografia sono due concetti diversi: la danza è un fenomeno naturale, un comportamento innato dell’essere umano, mentre la coreografia è più vicina al concetto di architettura, come se si trattasse più di una costruzione dove spesse volte la performance non ha al centro un corpo umano danzante, ma anche oggetti che possono riprodurre movimenti il più possibile vicini alla danza stessa.

La danza contemporanea avrà un valore nuovo quando al centro ci saranno le relazioni e gli artisti devono assolutamente cercare di capire in quali modalità interagire con il pubblico. 

Ecco cosa deve fare uno spettatore: arrivare allo spettacolo con il solo obbligo di accomodarsi sulla poltrona, lasciarsi andare alle suggestioni che gli vengono trasmesse. 

Due spettacoli di teatro danza ci aspettano alla sera: Passenger, il coraggio di stare della Compagnia SerTom e Quintetto della compagnia Aldes. Due spettacoli di teatro danza, due modalità di lavoro e di trasmissione di un messaggio completamente diversi.

In Passenger, il messaggio percepito dal pubblico è arricchito da suggestioni visive, proiezioni di disegni che si intersecano con la danza dei performer: il coraggio di una donna di superare le difficoltà ed ostacoli che la vita le pone sono enfatizzati da pennellate che ricordano a volte un bosco, a volte uno scoglio. Si lasciano così degli input su cui lo spettatore può riflettere anche a lungo termine.

Quintetto presenta un differente approccio e un doppio livello di lavoro: con la scusa di raccontare brevemente i temi trattati, Marco Chenevier affronta l’ argomento dei tagli alla cultura e alla scienza e allo stesso tempo, trascina il pubblico in uno spettacolo dove gioca un ruolo fondamentale dimostrando che senza spettatori, non c’è messa in scena. E così, qualcuno viene chiamato a fare il datore luci, qualcun altro a danzare sul palco e qualcuno ai contributi musicali, senza perdere di vista l’atto performativo.

Finisce così questo mio primo giorno, ed ecco che la mia storia si intreccia con quella degli spettatori erranti: in rappresentanza, un gruppo tutto al femminile, vivace e attento. Mi accolgono con affetto nel loro “giro”. Tra tutte c’è Gabriella, che mi ospiterà a casa sua, che si scusa perché all’ultimo minuto ha saputo di avere un’ospite in casa e che quindi non troverò la casa in ordine (vedesse la mia scrivania o parlasse con la mia mamma!!!). 

Mi accoglie e mi chiede due minuti per riassettare la stanza: è grande, ha una scrivania ampia su cui si ergono due Mensole. Su una in particolare, le tesi del suo figliolo, che ora vive fuori Italia, ma ogni tanto torna, che ha vissuto nella grigia Milano che a Gabriella piace molto. 

Mi mostra i lavori che affronta con i bambini di varie classi ed età ed i loro disegni. Gabriella ama l’arte: casa sua è piena di opere di artisti, di libri dedicati a geni del nostro tempo. Ha le pareti bianche, perché dice che le piace che ci sia luce in casa, e così i quadri e le opere disseminate per casa assumono ancora più rilievo. 

Mi dice che per colazione dovremmo arrangiarci.

Mi tengo per buona la soluzione b, come Bar, per l’indomani. 

Sabato 6 Ottobre

Eccoci. Sveglia presto e uno sguardo verso la finestra: c’è un sole pallidissimo, ma l’atmosfera delle prime luci del mattino sull’orizzonte della città è palpabile e la visuale suggestiva. Mi reco in cucina, memore dell’avvisaglia di Gabriella che per colazione ci dovremmo adattare. Entro e vedo nel seguente ordine: un vassoio con una tazza di caffè doppio, 4 cantucci formato maxi, della cioccolata di Modica a blocchi (un quadrato quasi 50gr) e un piatto di mandorle dalla Sicilia e, dulcis in fundo, biscotti con le gocce di cioccolato. Diceva che non c’era niente da mangiare..

Tra un blocco di cioccolata, cantucci e un doppio caffè, ci carichiamo per la giornata che deve essere davvero molto intensa: arriviamo a teatro e la sala è gremita, piena di ragazzi, di operatori e pubblico. Oggi è il giorno del raduno degli Spettatori, ma il mattino è dedicato al progetto Guardare ci riguarda, anche qui, due sono gli spettacoli presentati, Sul Vedere di Claudia Caldarano e Alle Porte Compagnia Fondamenta Zero sempre due messe in scena molto diverse tra loro a cui il pubblico in sala è invitato a fare una piccolissima analisi e ad un confronto con gli artisti-interpreti. Protagonisti della mattina sono soprattutto i ragazzi del Liceo Vittoria Colonna che, assieme al resto del pubblico in sala, decreteranno chi tra i due spettacoli sarà presente al Festival per la prossima edizione del 2019.

Quello dei ragazzi è un universo complesso: è un momento di tante idee, considerazioni, prese di coscienza nuove. Guardarli seduti, reagire in relazione a quello che vedono, in silenzio o ridendo, senza distrazioni da cellulare o chiacchiere, è stato rassicurante. Spesso gli studenti vengono portati a teatro a vedere uno spettacolo senza che gli venga spiegata che l’uscita ha una connotazione diversa da una lezione e che quello che vedranno non deve essere solo visto, ma guardato, perché il teatro non è solo intrattenimento, ma è molto di più. È un osservatorio continuo, il centro di storie e personaggi spesso molto vicini al nostro vissuto: è un universo di ricchezza, che amplia la mente, dove si ride, si scherza, ci si emoziona, si pensa.

Giunge l’ora della votazione: ognuno deve esprimere la propria preferenza e motivazione. interessante è la scelta che non saranno ritenute valide le schede senza motivazione: un modo per far riflettere gli spettatori sulle ragioni che lo portano a preferire una messa in scena ad un’altra. E se voglio che il mio voto valga, devo esprimere anche un motivo. Un ottimo insegnamento e abitudine per tutti, soprattutto per i più giovani, di modo che imparino a ridere, emozionarsi, riflettere in piena coscienza quando vedono uno spettacolo.

Arriva il pomeriggio. Dopo essermi mangiata una minestra di pane soddisfacente (la cosiddetta ribollita), ecco la gran reunion degli spettatori: 7 gruppi formati da 10/15 persone max che affronteranno due laboratori per poi riportare l’esperienza vissuta nell’incontro finale in teatro, davanti a tutti gli altri.

Di quanto facciano bene i laboratori di teatro me ne sto ricordando solo in questo periodo. A settembre sei ore di lavoro con quattro differenti “insegnanti”, ed oggi si ripete l’esperienza.

Una pratica e una teorica. Nella prima esperienza, divisi a coppie, abbiamo scelto un colore ed una parola, camminato con il nostro compagno/a all’interno della Fortezza – spazio da poco restaurato e aperto al pubblico – che offre un panorama sulla città suggestivo. Ho scelto il colore blu e la parola collaborazione. Aprirsi all’altro senza conoscersi, e guardare assieme nella stessa direzione, portare l’altro nel tuo punto di vista ed essere nel punto di vista dell’altro è un’esperienza che allarga gli orizzonti mentali.

Così come nella seconda esperienza, cercare delle immagini, o meglio, delle icone che possano rendere al mio sguardo un personaggio di una drammaturgia riconoscibile in ogni messa in scena, nonostante un allestimento diverso, una chiave di lettura o focus su un tema particolare.

Si riportano così in teatro, dove ci riuniamo tutti, i risultati dei 7 laboratori. Il pubblico ne discute, pensa e riflette. Tra le tante considerazioni, queste parole credo che riassumano bene alcuni punti chiave delle giornate che stiamo vivendo al Festival:

Il teatro è un universo di segni da interpretare

Lo spettatore è testimonianza, testimone e testimonial

Dallo spettatore partono diverse ramificazioni dello spettacolo

In teatro ti concedi anche di non capire e di resistere al silenzio

I critici dormono durante gli spettacoli e dicono che funzioni

In teatro si imparano a leggere gli archetipi

Il critico media la lettura dell’alfabeto teatrale

Il dibattito prosegue, intervengono anche i tutor raccontando dal loro punto di vista la restituzione dei gruppi di lavoro. Usciamo dal Teatro Pietro Aretino per recarci verso una parte della città dove ci attende un momento teatrale all’aria aperta. Piove molto, umidità a mille, ma non ci fermiamo.

Palloncini rossi volano sotto il porticato, pigiami e pantofole camminano davanti a noi aprendo ombrelli per riparare i narratori di storie: il Flash mob a cura di Andrea Paolucci del teatro dell’Argine è un sogno ad occhi aperti nel bel mezzo della città, della vita di tutti i giorni. È un momento per fermarsi a pensare, a distogliere lo sguardo puntato sui nostri telefoni, ed invito ad interagire tra le persone, a continuare a cercare lo sguardo degli altri. Solo così si costruisce davvero una città, solo così i sogni diventano reali, per le comunità e per il territorio in cui vivono.

Ancora piadina, ancora finocchiona. Piove a dirotto, ma non ci ferma nemmeno per sogno: siamo pronte a riempirci lo stomaco e affrontare finalmente il MACBETTU di Alessandro Serra. Un classico shakespeariano, attori tutti uomini come ai tempi del Bardo, ma recitato in sardo (con sovratitoli in italiano) e in un allestimento senza tempo, ma estremamente funzionante. Lo spettacolo lo scorso anno è stato tra i finalisti del Premio Hystrio – Twister, il vero e proprio PREMIO DEL PUBBLICO. Posso garantirvi che è stata una lotta all’ultimo clic: Macbettu si è molto ben difeso nonostante gli altri due spettacoli in gara. E a ragione ben veduta.

Si riflette su una drammaturgia senza tempo, ieri come oggi, sui personaggi, si ride anche, si riflette molto. E adesso non vedo l’ora di tornare a vederlo a Milano, di riguardarlo, di riosservarlo, di riascoltarlo ancora per cogliere altre sfumature, altri non detti, altre riflessioni.

E poi, ecco, posso dirlo? per una sera, non sono io ad accompagnare al posto il pubblico, ma sono parte del pubblico che viene accolto ed accompagnato in sala. Una prospettiva per me molto diversa da quella a cui sono abituata. Torniamo a casa io e Gabriella, percorriamo una decina di minuti a piedi perché il parcheggio si trova lontano dal centro città (ed io come lei, piuttosto che ritrovarmi nel bel mezzo di Piazza della Repubblica, a Milano, o basta anche la rotonda del mio paese alle ore 18:30, me la faccio a piedi): arriviamo a casa, una birretta divisa in due, quattro chiacchiere, del più e del meno, ma che mi permettono di conoscere ancora di più “la Gabriella”. Vado a letto con un pensiero: non importa da quanto conosci una persona, l’importante è il rapporto che si instaura, i sottintesi e i non detti. E di non detto c’è molto, ma mi è sufficiente per pensare ad un piccolo pensiero per lei per ringraziarla della sua accoglienza e generosità.

Domenica 7 ottobre 2018

Partire per un viaggio ha un suo perché: se avessi voluto sentire la nostalgia di Milano, ecco… non ci sarei riuscita. Ne ho parlato tanto, fin troppo, forse. Gabriella se potesse venire a vivere lassù lo farebbe di corsa: “6 mesi all’ombra della Madonnina e 6 mesi in campagna, se solo potessi!”. Io affermo che se, fosse disposta, potrei pensare di proporle uno scambio: io sei mesi ad Arezzo e sei mesi in campagna, e lei nelle zone della movida milanese. Secondo me, potrebbe accettare la mia proposta, ma, mi ricordo che ho gli affetti, uno/due/tre lavori che mi aspettano e che, anche se umida un giorno si e pure l’altro, ecco..Milano è Milano,è casa.

E prima di prendere il treno di ritorno al pomeriggio, ho ancora tutta la mattina davanti. Una scrosciatona d’acqua raffredda le temperature e sembra mettere a rischio “Pentesilea” della compagnia del Teatro dei Venti, lo spettacolo di chiusura del Festival dello spettatore.

E anche la gita per il centro storico di Arezzo sembra quasi essere a rischio, ma per fortuna si rasserena. Ci accompagna una giovane ragazza, ci racconta la nascita della città, e di una peculiarità che la rende unica: la fiera antiquaria ogni prima domenica del mese. Il passato e il presente si incontrano, artigiani e rigattieri dividono le strade e rendono la città ancora più affascinante. 50 anni di fiere, con tanto di palazzo dedicato all’organizzatore, Ivan Bruschi, che non visitiamo per intero ma solo sul piano dell’ingresso. Oltre a una parte della collezione, sono tanti i fogli, tante pratiche burocratiche che sono state fatte per organizzare al meglio l’intera fiera. E allora davanti a quelle teche e a quei documenti, penso a come la volontà di una persona possa muovere le volontà di altre, incuriosirle fino a creare un’occasione per la città e per i turisti di arricchimento culturale, di scambio economico e di beni peculiare. Gli occhi negli occhi è il leitmotiv che si respira passando per quelle bancarelle, i commercianti sono disponibili alle chiacchiere e a rispondere alle curiosità degli acquirenti.

Come sempre, il parallelismo mi riporta a pensare agli spettatori, al passaparola, al creare e fare rete perché sempre più persone possano farsi coinvolgere e coinvolgere a loro volta altri spettatori quando vedono uno spettacolo particolarmente stimolante.

Giunge l’ora dell’ultimo appuntamento: Tutti in piazza a vedere “Pentesilea”, la storia di guerra e d’amore tra l’amazzone e il valoroso Achille. Il tempo gioca a favore di questa storia: i raggi del sole picchiano sul cemento nel momento in cui sembra trionfare l’amore, e si riannuvola, come se ci fosse una regia dall’alto, quando la disperazione e la rabbia prendono il sopravvento sull’eroina. Accompagnati da un musicista e da due tamburi medioevali, questo spettacolo di strada è scenograficamente suggestivo, oltre che ben interpretato dai due performer, Antonio Santangelo e Francesca Figini.

C’è chi si commuove, chi pensa alla quotidiana lotta tra bene e male, a chi un amore lo ha perso, e chi ha lottato per amore contro entità negative.

Un bel messaggio da portare a casa, e da tenersi stretto, in quei ricordi da non perdere tra le mille cose da fare.

Finisce lo spettacolo e arriva il momento dei saluti: foto in grandi quantità, abbracci che sono degli arrivederci, come se domani dovessimo ritrovarci tutti. È stato magico sentirsi così accolti e ben voluti, bene accetti. Guardare le persone, parlare con le persone: atti semplici ma che rischiamo di dimenticare per dare più spazio ai telefoni e alle apparenze. Non si va più a fondo, non si legge più tra le righe. Ad Arezzo mi sono ricordata ancora una volta di più dell’importanza del darsi tempo, per conoscere l’altro e conoscersi.

Mi mancheranno tutti, e Gabriella al primo posto. Per tutta la disponibilità ed accoglienza decido di regalarle una collana, qualcosa di colorato, come diceva da giorni. Si sanno molte cose dai silenzi degli altri e si lascia che gli altri, dai nostri intervalli, possano scoprire qualcosa di più del nostro. Ho dimenticato l’ombrello sulla Sua macchina: so che tornerò presto a trovare lei e tutto lo splendido gruppo degli Spettatori Erranti, di cui mi pregio di esserne una piccola branca milanese.